lunedì 12 maggio 2025

Rainer Maria Rilke e la sua Duino

Il capitolo: Rainer Maria Rilke e la sua Duino




Rainer Maria Rilke – Le acque di Duino e le voci dell’invisibile

All’inizio del 1912, sulle alture rocciose che guardano il mare di Duino, un vento gelido spirava dal Carso. Rainer Maria Rilke si trovava ospite nel Castello della principessa Marie von Thurn und Taxis, rifugio sospeso tra cielo e mare. In quei giorni d’inverno, mentre l’Europa si preparava inconsapevolmente alla catastrofe della Grande Guerra, il poeta, tormentato da una lunga crisi creativa, ascoltò d’improvviso una voce. Una frase – «Chi, se io gridassi, mi udrebbe dalle schiere degli angeli?» – parve giungergli da altrove, come soffiata dallo stesso vento che batteva contro le mura antiche del castello. Era l’inizio delle Elegie duinesi, una delle vette assolute della poesia del Novecento.

In quell’istante, tra le pietre battute dalla bora e l’eco lontana dell’Adriatico, si aprì un varco nell’anima di Rilke. La poesia, da tempo silente, riprese a sgorgare come acqua da una fonte profonda. «È come se fosse esploso all’improvviso un piccolo mulino», scrisse qualche tempo dopo, evocando il movimento interno che risvegliava, in parallelo, anche un antico ciclo lirico: il Marien-Leben, le poesie sulla vita di Maria. Se da un lato Rilke rifiutò di tornarvi su per un progetto editoriale proposto dall’amico pittore Heinrich Vögeler, considerandole ormai lontane dai suoi interessi, fu proprio il moto interiore suscitato dalle Elegie a riattivare quel “mulino poetico” – segno che nulla si perde, nella vera poesia, ma tutto si trasforma.

Il paesaggio triestino, il mare, le rovine, l’asprezza e la luce di Duino penetrarono nella voce lirica di Rilke. Le Elegie duinesi, scritte tra il 1912 e il 1922 – interrotte a lungo da un decennio di crisi personale, esilio interiore, guerre e silenzi – sono nate nel luogo dove l’acqua incontra la pietra, dove la vita si rifrange nella memoria e nel mito.




Il paesaggio come rivelazione

Duino è molto più di uno sfondo. È presenza viva nella tessitura delle Elegie. La sua geografia carsica, la sua posizione sospesa tra terra e mare, il vento che soffia incessante, sembrano incarnare le forze contrastanti che abitano il cuore dell’opera rilkeana: il desiderio e la perdita, la visibilità e l’invisibile, la vita e la morte.

Per Rilke, il paesaggio non è mai semplicemente esterno. È «spazio interiore del mondo» (Weltinnenraum), uno dei concetti chiave della sua poetica matura. Esso abita l’uomo, e l’uomo lo abita a sua volta: un reciproco riflesso, una continuità profonda tra il fuori e il dentro, come in un’onda che rifrange la luce sulla pietra. Il castello di Duino, così vicino al mare, così esposto al cielo, diviene il tempio sospeso in cui la voce poetica può finalmente ascoltare l’angelo.



L’angelo, la morte, il tempo

Le Elegie sono un dialogo ininterrotto con l’assoluto. L’angelo rilkeano non è figura cristiana, ma simbolo di una perfezione inattingibile, di una forma pura e spirituale dell’esistenza. Egli rappresenta ciò che l’uomo non è più capace di essere, immerso com’è nella caducità, nell’angoscia, nella coscienza del tempo.

L’angoscia della morte, che già aveva attraversato I quaderni di Malte Laurids Brigge, torna nelle Elegie come vertigine, ma anche come possibilità. Non si tratta di esorcizzarla, ma di assumerla come parte della vita. È la morte, dice Rilke, a rendere la vita degna di essere vissuta, proprio perché ogni istante può essere l’ultimo. «Siamo forse qui per dire: casa, ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra...», scrive nella Nona Elegia. L’uomo è colui che dà nome alle cose, che le custodisce con lo sguardo e con la parola.

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Il fiume del tempo e l’eternità dell’attimo

Nel flusso lirico delle Elegie, ogni immagine scorre come un fiume. Non a caso, l’acqua è simbolo ricorrente nella poesia rilkeana: metafora del tempo, dell’interiorità, del mutamento incessante. La poesia stessa, per Rilke, è come un corso d’acqua sotterraneo, che riaffiora solo quando le condizioni del terreno – ossia dell’anima – lo permettono.

Scrivere, per lui, era attraversare le tenebre, trovare una lingua capace di dire l’indicibile. La poesia è atto di ascolto, di ricezione. Nelle Elegie, questa ricezione è soprattutto visione interiore: «la bellezza non è che il principio del tremendo», dice nella Prima Elegia. Solo chi ha attraversato la notte può vedere la luce che resta.



Duino, crocevia di epoche

Le Elegie duinesi si collocano in un punto di svolta nella storia europea e nella storia della poesia. Sono l’ultimo grande canto della tradizione simbolista, ma anche l’apertura verso una lirica nuova, profetica, in bilico tra il moderno e l’eterno.

Scriverle fu per Rilke un lungo processo di maturazione. Dopo l’impulso iniziale a Duino, l’opera si interruppe per quasi dieci anni. Solo nel febbraio del 1922, in un improvviso scatto creativo nel castello di Muzot, in Svizzera, Rilke completò d’un fiato le ultime elegie. In quei giorni scrisse anche i Sonetti a Orfeo, altra opera vertiginosa e complementare, ispirata dalla morte della giovane danzatrice Wera Knoop.

Il cerchio si chiude, ma l’opera rilkeana resta aperta come un enigma. Il suo messaggio, tuttavia, è chiaro: «Non esistono separazioni tra la vita e la morte, tra il visibile e l’invisibile. Tutto ciò che esiste è degno di essere detto, e solo la poesia può dirlo».



Sulle vie dell’acqua, alla sorgente della parola

Dedicare questo capitolo a Rainer Maria Rilke, nel 150° anniversario della sua nascita, significa riconoscere la potenza della parola poetica come fiume che attraversa il tempo. Le sue Elegie duinesi, nate sul ciglio di un promontorio, sono un ponte tra il mondo degli uomini e quello degli angeli, tra l’esperienza terrena e la voce dell’assoluto.

E se l’acqua è memoria, mutamento, profondità, le parole di Rilke restano come pietre lucide in cui scorrono e si rifrangono le domande più alte della nostra condizione umana. In esse si specchia ancora oggi, come allora, il volto tremante dell’invisibile. 








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