Capitolo "Il disastro del Vajont"
IL PROGETTO E LA COSTRUZIONE DELLA DIGA
Il Vajont è un affluente del fiume Piave che scorre nella parte sud-est delle Dolomiti.
Nei secoli, questo corso d’acqua ha scavato una suggestiva gola stretta e profonda, la gola del Vajont, situata tra due montagne: il monte Toc e il monte Salta. Sulle pendici del monte Salta sorgono alcune piccole comunità montane, racchiuse nel Comune di Erto e Casso (Pordenone), mentre all’incontro della gola del Vajont con la Valle del Piave sorge la città di Longarone (Belluno).
Nel 1929 iniziano gli studi e i progetti per costruire un bacino artificiale nella Valle del Vajont. In pochi anni il progetto è pronto, ma scoppia la seconda guerra mondiale. Nel 1943 inizia l’acquisizione dei terreni e negli anni successivi viene portato a termine l’esproprio dei terreni privati. I cantieri vennero aperti nel 1957, con ampi contributi pubblici, sulla scia del “miracolo economico” dando lavoro a circa 400 persone.
L’economia italiana era in rapida espansione e le città del Nord, sempre più popolate, hanno bisogno di energia elettrica. La SADE (Società Adriatica di Elettricità) decide di ampliare il progetto originale.
La diga sarebbe diventata la più grande del mondo (266 metri di altezza, 723 sopra il livello del mare), in grado di contenere 115 milioni di metri cubici di acqua, su progetto dell’ing. Carlo Semenza uno dei più geniali progettisti italiani della sua epoca. Ma se la diga viene costruita seguendo le tecniche più innovative, non vengono tuttavia condotti sufficienti studi sulla stabilità del versante settentrionale del monte Toc.
L’instabilità di questo versante è ben nota, e addirittura vengono effettuate opere accessorie nell’ipotesi che una frana possa cadere e dividere il lago in due parti.
Alla fine del 1962, in seguito alla legge del governo Fanfani che stabilisce la nazionalizzazione dell’industria elettrica italiana, nasce l’ENEL: la diga del Vajont diventa proprietà statale.
LA TRAGEDIA DEL VAJONT
La sera del 9 ottobre 1963, alle 22:39, un enorme blocco di terra di 400 metri cade dal Monte Toc, provocando una frana di 270 milioni di metri cubi di roccia. In circa un minuto la frana scivola nel lago artificiale a una velocità di 100 Km/h sollevando un'altissima ondata che semina distruzione e morte a Longarone, Erto e Casso, al confine tra Friuli Venezia Giulia e Veneto.
Una catastrofe mai dimenticata, quasi 2000 vittime, tra cui centinaia di bambini. Soltanto 750 persone vennero identificate.
Distrutti paesi e frazioni con ogni forma di presenza e attività umana; uno tsunami inserito tra i disastri “naturali” europei più gravi del Novecento. Una scia di rovine e di lutti resa più drammatica dalle responsabilità umane che vi concorsero.
Un monito che ancora oggi, alla luce di recenti tragedie legate al nostro rapporto con la natura e alla gestione del territorio, sembra non essere pienamente ascoltato.
A 60 anni dalla catastrofe – molti superstiti sono anziani e alcuni sono morti – diventa più che mai un obbligo trasmettere la Memoria del Vajont esaltando i valori morali, civili e ambientali che la tragedia richiama. Un passaggio di testimone alle nuove generazioni affinché la “lezione del Vajont”, diventata patrimonio universale, sia insegnamento di vita.
DOPO IL DISASTRO
Dove prima sorgeva la cittadina di Longarone, la mattina del 10 ottobre c'è un'enorme distesa di fango. Iniziano ad arrivare i soccorsi, vengono recuperati i primi cadaveri.
Il giorno dopo, poiché c'erano rischi di ulteriori frane, viene ordinato lo sgombero a monte della diga, gli abitanti di Erto e Casso (paesi risparmiati per pochissimo, ma le frazioni furono letteralmente spazzate via) sono costretti a lasciare le loro case, ma alcuni di loro torneranno clandestinamente.
Finita la tragedia del Vajont ci si inizia a domandare se in tutto questo qualcuno avesse delle responsabilità. Commentatori, giornalisti e politici si dividono.
Secondo alcuni si tratta di un disastro naturale che non andava strumentalizzato e si schierarono in difesa della diga del Vajont, che nonostante il disastro naturale rimane in piedi. Per altri si parla di negligenza e di “prevalenza dell'interesse economico”: a provocare il disastro sarebbe stata la SADE.
Tre giorni dopo il disastro viene nominata una Commissione d'inchiesta sulla sciagura. Il processo che ne è conseguito è durato dal 1968 al 1972. I capi d'accusa della magistratura sono: cooperazione in disastro colposo (sia di frana che di inondazione), omicidio e lesioni colpose plurimi.
Ad essere accusati sono alcuni dirigenti e consulenti della SADE e alcuni funzionari del Ministero dei lavori pubblici. Tutte le relazioni tecniche del caso dimostreranno che la catastrofe del Vajont era prevedibile.
Gli avvocati della SADE però ricorrono presso la Corte d'Appello di Venezia chiedendo lo spostamento del processo a una sede diversa da quella di Belluno, per "legittima suspicione"; la Corte d'Appello vede minacce e pericoli per l'ordine processuale e l'ordine pubblico se il dibattimento avesse dovuto svolgersi a Belluno.
Nulla giustifica simili previsioni, su nulla si fonda il legittimo sospetto, ma la Cassazione tolse il processo alla sua sede naturale e lo trasferì all'Aquila.
Il dopo-Vajont dal punto di vista giudiziario si è concluso solo pochi anni fa, dopo interminabili processi, con viaggi lunghi e faticosi affrontati dai superstiti che non si arresero mai all'idea di non poter seguire da vicino il processo, anche se la legge lo aveva spostato a quasi 900 km da quella che sarebbe stata la sua sede naturale e giusta.
Alle pesanti motivazioni e condanne seguirono pene leggere. Vengono condannati solo Alberico Biadene (dirigente SADE) e Francesco Sensidoni, capo del servizio dighe del Ministero dei Lavori pubblici.
Nel 1997 la Corte d'Appello di Venezia condanna Montedison (società in cui è confluita la SADE) a risarcire il Comune di Longarone, mentre successivamente, ENEL ha dovuto risarcire Erto e Casso.
Il Progetto Sulle Vie dell'Acqua
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