Il capitolo: Timavo: il fiume che scompare e ritorna
Tra i fiumi più misteriosi e affascinanti d’Europa, il Timavo incarna alla perfezione il rapporto millenario tra l’uomo e l’acqua. La sua corsa — parte visibile, parte sotterranea — attraversa confini, epoche, leggende, religioni, guerre e rivoluzioni. Non è un fiume come gli altri: è un simbolo di resilienza e di mistero, che ha alimentato culti pagani, ispirato versi immortali e, nel cuore del Novecento, garantito l’acqua a una città moderna e assetata come Trieste.
Il Timavo nasce lontano, nella Croazia settentrionale, alle pendici del Monte Nevoso, dove è noto come Reka (che in sloveno significa proprio “fiume”). Per i primi 50 chilometri circa, scorre come ogni altro corso d’acqua di montagna, ricevendo affluenti e alimentando piccole attività artigianali, come mulini e segherie idrauliche che per secoli hanno rappresentato il motore economico della regione.
Ma è a San Canziano, nel Carso sloveno, che il Timavo scompare. Letteralmente. Si inabissa tra le fenditure calcaree, precipitando in profondità attraverso un sistema di grotte, pozzi e sifoni tra i più studiati al mondo. Lo si può ancora intravedere, cupo e silenzioso, sul fondo dell’abisso di Trebiciano, mentre si dirige verso il mare. La sua corsa sotterranea dura circa 40 chilometri, per poi riaffiorare con impeto e fragore in Italia, a San Giovanni di Duino, nella Venezia Giulia. Qui, tra cipressi e pioppi, sgorga da più bocche, fino a riunirsi in un solo corso e gettarsi nell’Adriatico.
Fin dall’antichità, questo “gioco di scomparsa e resurrezione” ha stupito e spaventato. Virgilio, nell’Eneide, descrive il Timavo come un fiume impetuoso, “che con alto frastuono erompe dalla montagna per nove bocche”. Le genti preromane lo veneravano come manifestazione divina. Nei pressi delle risorgive sono stati rinvenuti altari dedicati a Ercole, Saturno, Libero Augusto, Spes Augusta, ma soprattutto a una misteriosa divinità fluviale: Temavus.
L’importanza simbolica e spirituale del fiume si tradusse anche in edifici sacri. Con l’avvento del cristianesimo, sorse qui la basilica di San Giovanni in Tuba, sorta su una primitiva cappella del IV secolo. Ma il Timavo, come il tempo, ha visto tutto: le invasioni degli Avari, le distruzioni degli Ungari, i restauri promossi dal patriarcato di Aquileia e poi di nuovo il saccheggio da parte degli Ottomani. Eppure, sempre, le sue acque sono riemerse.
Timavo nel Novecento: l’acqua che salvò Trieste
Nel cuore del XX secolo, mentre l’Europa si contorceva tra due guerre mondiali, il Timavo assunse un ruolo chiave, non solo simbolico, ma profondamente pratico: fu una delle principali fonti d’acqua per Trieste, città di confine, porto imperiale prima e crocevia geopolitico poi.
All’inizio del Novecento, Trieste stava crescendo rapidamente. Da sobria città asburgica, si stava trasformando in uno snodo industriale e commerciale moderno, ma mancava qualcosa di essenziale: l’acqua potabile. Le risorse locali non erano più sufficienti a soddisfare la popolazione in espansione, né a sostenere la crescente rete ferroviaria, i cantieri navali e le industrie manifatturiere del porto.
Fu allora che lo sguardo si volse verso il Timavo, la cui portata media di circa 27 metri cubi al secondo rappresentava una potenziale salvezza. Ma raccogliere e canalizzare le sue acque non era semplice: il fiume non si comportava come gli altri, scompariva nel sottosuolo per poi riemergere in modo discontinuo, soggetto a fenomeni carsici imprevedibili.
Nel 1907, un esperimento di idrologia segnò una svolta. Con il metodo della colorazione delle acque, fu finalmente provato in modo scientifico che le acque che sgorgavano a San Giovanni provenivano effettivamente dalla parte alta del Timavo. Questa scoperta consentì la pianificazione di opere ingegneristiche più precise.
Durante la Prima guerra mondiale, la zona delle risorgive fu teatro di battaglie e trincee. L’acqua del Timavo, tra fango e sangue, serviva ad abbeverare uomini e cavalli, ma anche a raffreddare le artiglierie pesanti. La presenza del fiume, nascosta e sotterranea, offriva anche potenziali vie di infiltrazione e di rifugio: il Carso, con le sue cavità naturali, diventava un alleato silenzioso.
Fu però nel secondo dopoguerra, sotto amministrazione italiana, che il ruolo strategico del Timavo per Trieste raggiunse il culmine. Tra gli anni ’50 e ’60, le autorità locali, in collaborazione con l’allora Ente Nazionale Acquedotti, avviarono una serie di lavori per captare sistematicamente le acque del Timavo. Furono costruite gallerie, pozzi e condotte che portavano l’acqua fino ai serbatoi cittadini.
L’opera non fu priva di ostacoli. L’instabilità del terreno carsico e il rischio di inquinamenti accidentali da parte delle attività agricole e industriali in Slovenia e Croazia richiesero continui monitoraggi e investimenti in tecnologie idrauliche avanzate. Nonostante questo, ancora oggi, parte dell’approvvigionamento idrico triestino dipende da quella vena d’acqua antica, che sbuca potente dal ventre della terra.
Il Timavo, dunque, nel Novecento non fu solo fiume di confine o reliquia poetica, ma sorgente di vita concreta per una città sospesa tra Est e Ovest. A testimonianza di ciò, ancora oggi, nei pressi delle risorgive, sono visibili le infrastrutture dell’acquedotto storico: tubazioni, stazioni di pompaggio e sistemi di filtrazione, tutti incastonati in un paesaggio che sembra uscito da un mito classico.
Ma l’importanza del fiume non si limitò al solo utilizzo idrico. I geologi, speleologi e studiosi del carsismo vi trovarono un vero e proprio laboratorio naturale. Le esplorazioni nell’abisso di Trebiciano permisero di cartografare porzioni del sottosuolo rimaste sconosciute per secoli. Le Grotte di San Canziano, ora Patrimonio UNESCO, divennero una delle aree più visitate e studiate dell’intera Europa.
Il Novecento vide anche un Timavo “politico”. Durante la Guerra fredda, la sua natura di fiume transfrontaliero, con una parte della sua sorgente in Croazia e il resto in Slovenia, costituiva un tema delicato. Le acque del Timavo, italiane solo in apparenza, attraversavano territori che, a partire dal 1947, facevano parte della Jugoslavia. Il controllo delle risorse idriche e le preoccupazioni ambientali divennero oggetto di cooperazione, ma anche di tensioni latenti.
Timavo oggi: tra sacralità, scienza e memoria
Oggi il Timavo appare silenzioso, quasi discreto, ma in realtà continua a raccontare storie. Le sue risorgive a San Giovanni di Duino, circondate da pioppi, cipressi e platani, sono divenute un luogo di contemplazione e di riflessione. Qui non si avverte solo la forza della natura, ma una stratificazione di epoche: ogni pietra, ogni gorgoglio d’acqua è una voce del passato.
Il fiume, pur breve nel tratto visibile (meno di tre chilometri), è denso di significati. Ancora oggi vi si recano speologi, idrologi e geologi da tutta Europa, attratti da quello che è considerato uno dei sistemi carsici più complessi e affascinanti del continente. L’esplorazione dei suoi percorsi sotterranei, come quelli legati all’abisso di Trebiciano, continua a offrire nuove scoperte, alimentando una letteratura scientifica ampia e in costante evoluzione.
Al contempo, il Timavo è anche un fiume di pellegrinaggi culturali e spirituali. Nei pressi della basilica paleocristiana di San Giovanni in Tuba, sorge su fondamenta antichissime un edificio sacro che, attraverso secoli di ricostruzioni, conserva ancora il senso del mistero e della gratitudine verso l’acqua. Le leggende su Antenore, le citazioni virgiliane, i frammenti epigrafici latini recuperati nelle vicinanze, ricordano che qui il mito e la storia si incontrano.
Il paesaggio del Timavo, con i suoi campi carsici, le grotte nascoste e le fioriture di primavera, è oggi inserito in percorsi escursionistici e naturalistici, promossi da associazioni storiche come la Società Alpina delle Giulie e l’Associazione XXX Ottobre. I sentieri che collegano le pendici del Monte Nevoso alle sorgenti di Zabiče e Vela Voda, passando per i villaggi sloveni e croati, consentono ai camminatori di vivere il fiume nella sua totalità, dal primo zampillo fino alla sua misteriosa sparizione nelle Grotte di San Canziano.
Un episodio significativo è accaduto tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento: a Vreme, un nuovo inghiottitoio si aprì improvvisamente, deviando parte delle acque e creando problemi alle attività turistiche collegate alle grotte. Fu un evento che ricordò a tutti quanto il Timavo sia vivo e imprevedibile, un’entità che ancora oggi sfugge a pieno controllo umano.
La sua natura carsica, infatti, lo rende un fiume profondamente vulnerabile ai cambiamenti climatici e alle attività antropiche. Il pericolo dell’inquinamento delle sue acque è reale e ha spinto negli ultimi anni alla creazione di progetti transfrontalieri tra Italia, Slovenia e Croazia per la sua tutela. Il Timavo, in questo senso, è anche un simbolo di cooperazione ecologica e diplomatica, in un’epoca in cui l’acqua è tornata al centro delle questioni strategiche globali.
Eppure, al di là di tutti gli usi pratici, dei calcoli idraulici, delle dighe e dei condotti, il Timavo resta soprattutto una presenza poetica. È l’unico fiume d’Europa che “muore” e “rinasce” nello stesso viaggio, come se ogni giorno celebrasse un rito arcaico di trasformazione. Nelle notti di vento, chi si avvicina alle risorgive giura di sentire un suono profondo e vibrante, come un canto venuto da sotto terra.
Nel secolo scorso ha dissetato una città intera, ha sopportato guerre, distruzioni, rivoluzioni, ma non ha mai smesso di scorrere. Come scrisse un vecchio poeta del Carso, “il Timavo è la nostra memoria che cammina invisibile sotto i piedi, per poi tornare a guardarci negli occhi.”
Così si conclude il viaggio lungo questo fiume breve e immenso, antico e moderno, mitico e concreto. Il Timavo, più di un corso d’acqua, è un filo d’acqua e tempo che unisce le nostre radici con ciò che ancora deve venire.
Nessun commento:
Posta un commento