La SV è invitata alla presentazione del volume fotografico
sabato 31 maggio 2025
La presentazione del Volume e la conclusione del Progetto S
mercoledì 28 maggio 2025
Cividale del Friuli: pietre, acque e memorie
Capitolo Finale – Cividale del Friuli: Pietre, Acque e Memorie di Confine
Cividale del Friuli. Antico nome per una città antichissima. Fondata da Giulio Cesare come Forum Iulii, da cui prese nome l’intera regione del Friuli, Cividale è una soglia sospesa nel tempo, un punto di convergenza tra civiltà, culture e acque. Qui il fiume Natisone scorre da secoli sotto l’arco slanciato e carico di leggenda del Ponte del Diavolo, simbolo stesso della città, che collega due rive e due mondi: quello della storia e quello del mito.
Ma se il ponte è il simbolo della Cividale eterna, è nel suo cuore che pulsa la memoria dei Longobardi, che proprio qui posero la capitale del loro primo ducato italiano nel 568 d.C. – il Ducato del Friuli. La presenza longobarda è tuttora viva nei monumenti e nell’identità della città. Il Tempietto Longobardo, piccolo e preziosissimo gioiello architettonico, racconta l’altezza culturale e spirituale di un’epoca in cui Cividale era uno dei principali centri religiosi e politici d’Italia. Le eleganti figure delle sante scolpite nella pietra calcarea sembrano scrutare il visitatore da secoli, testimoni silenziose di un passato che ancora plasma il presente.
L’anima longobarda di Cividale è oggi custodita nel Museo Archeologico Nazionale, ospitato nel rinascimentale Palazzo dei Provveditori Veneti. Qui, i corredi funebri delle necropoli, le armi, le fibule, gli stili artistici e ornamentali parlano di un popolo guerriero e raffinato, che fece di Cividale un faro per l’Europa alto-medievale.
Le pietre della storia
E proprio attraverso la pietra – scolpita, costruita, tramandata – si dipana la storia della città. Cividale attraversò il dominio dei Franchi, l’epoca del Patriarcato di Aquileia, e infine quello veneziano. A partire dal Cinquecento, la città venne coinvolta nei grandi conflitti tra Venezia e l’Impero. Nel 1509 le truppe imperiali guidate da Enrico VII di Brunswick tentarono invano di conquistarla. Dopo un’epica resistenza, i cividalesi dovettero cedere solo temporaneamente, ma la città tornò ben presto sotto la protezione veneziana. Il Seicento fu segnato da crisi, pestilenze e faide tra famiglie nobili locali, ma anche da uno slancio artistico che vide coinvolti grandi nomi come Palladio e Palma il Giovane.
Nel 1797, con il Trattato di Campoformido, Cividale fu ceduta all’Austria. Dopo una breve parentesi napoleonica, fu annessa definitivamente al Regno d’Italia nel 1866. Durante il Risorgimento, la città fu fucina di idee e azione politica. Le sue vie strette e le piazze silenziose furono teatro di fermenti, di speranze, di rivoluzioni.
La Messa dello Spadone: rito e memoria
Tra i riti che tengono viva la memoria storica della città, la Messa dello Spadone occupa un posto d’onore. Ogni 6 gennaio, l’arcidiacono celebra la messa solenne nel Duomo di Santa Maria Assunta impugnando una grande spada, simbolo del potere spirituale e temporale di Cividale durante il dominio patriarcale. Un corteo storico accompagna la cerimonia: dame, cavalieri, notabili e milizie sfilano per le vie cittadine in abiti medievali, riportando in vita l’antica dignità della capitale del patriarcato d’Aquileia.
Il Novecento: frontiera e guerra fredda
Il Novecento ha segnato Cividale con nuove fratture. Durante la Seconda guerra mondiale, la città si trovò nel mezzo di scontri non solo militari, ma anche ideologici. Gli scontri tra le formazioni partigiane Osovane (fedeli alla monarchia) e Garibaldine (vicine ai comunisti jugoslavi) furono violenti. La vicinanza al confine sloveno – e il desiderio jugoslavo di annettere le zone italiane con presenza slavofona – portarono la tensione a livelli altissimi.
Nel secondo dopoguerra, Cividale divenne avamposto della Guerra Fredda. La sua posizione strategica la rese sede del comando della Brigata meccanizzata “Isonzo”, con compiti di difesa in caso d’invasione sovietica. Fu qui che si stabilirono alcune unità speciali della Fanteria d’arresto, pronte a combattere tra le opere difensive scavate nella roccia. La più nota di queste è la Galleria di Purgessimo, un dedalo di cunicoli e stanze blindate, oggi simbolo concreto di un tempo in cui l’Italia era divisa da una cortina invisibile ma minacciosa.
Non meno misteriosa e inquietante fu la presenza dell’Organizzazione Gladio, rete clandestina creata in funzione anticomunista sotto l’egida della NATO. Alpini ed ex alpini venivano qui addestrati a una guerra di resistenza in caso di invasione sovietica. La bellezza austera del paesaggio cividalese nascondeva così una dimensione sotterranea fatta di silenzi, segreti e preparativi per un conflitto mai esploso.
Una città che resiste
Nel 1976 il terremoto del Friuli mise nuovamente alla prova la tenacia della città. Anche se Cividale non fu tra i centri più colpiti, i danni ci furono e la risposta della popolazione fu immediata e solidale. La ricostruzione fu rapida e intelligente, rispettosa della struttura storica ma aperta all’innovazione. Un equilibrio difficile, eppure raggiunto, che oggi rende Cividale uno dei centri meglio conservati della regione.
Pietre che parlano, acque che scorrono
Passeggiare oggi per Piazza Paolo Diacono – il grande storico longobardo che proprio qui nacque – è come sfogliare un libro di pietra. Le facciate dei palazzi raccontano l’orgoglio nobiliare e la dignità civile di una città che, anche quando fu marginalizzata, non si spense mai. Le antiche case medievali, le vie strette, gli archi in pietra, conducono il visitatore verso il cuore pulsante della città: il Duomo.
All’interno, colonne solenni, stucchi, affreschi e pale raccontano la fede profonda e la cultura di un popolo. La pala dell’Assunta di Pellegrino da San Daniele, tra le altre, è testimonianza della grande tradizione artistica locale. Le campane, il giorno della Messa dello Spadone, sembrano suonare in un tempo parallelo, dove il presente e il passato si fondono in un’unica identità condivisa.
Cividale oggi: un ponte tra epoche
Oggi, Cividale è città UNESCO, riconosciuta per il suo straordinario patrimonio longobardo. Ma è anche città viva, sede di festival culturali, di studi internazionali, di dialogo tra le culture. La sua posizione sul confine – un tempo ferita – è ora risorsa. Con la Slovenia si collabora, si dialoga, si costruisce.
E mentre il Natisone continua il suo corso, sereno e paziente, le pietre di Cividale – palazzi, mura, chiese, roccaforti – raccontano la storia di un luogo che ha saputo affrontare la potenza degli imperi e la fragilità degli uomini, senza mai smarrire sé stesso.
Cividale del Friuli, ultima tappa di questo viaggio tra fiumi e memorie, è forse il suo emblema più autentico: città d’acqua e di confine, città di pietra e di spirito. Una città che insegna che la storia non è un passato lontano, ma qualcosa che pulsa, si trasforma e continua a parlarci – se sappiamo ascoltare.
martedì 27 maggio 2025
Aquileia, pietra, acqua e memoria
Il capitolo: Aquileia: pietra, acqua e memoria. L’anima antica del Novecento friulano
Nel cuore del Friuli-Venezia Giulia, dove le acque dell’Isonzo e della laguna si confondono in un paesaggio sospeso tra terra e cielo, sorge Aquileia, antica metropoli romana, cuore palpitante di scambi, pietre scolpite e memorie profonde. Fondata nel 181 a.C. come colonia latina per volere del Senato romano, Aquileia fu più di una semplice città: divenne crocevia culturale, politico ed economico tra l’Occidente e l’Oriente. E ancora oggi, il suo nome risuona tra i ciottoli e i resti marmorei come eco di un mondo che ha plasmato non solo la storia antica, ma anche quella recente, del Novecento.
L’eredità imperiale e la riscoperta novecentesca
Nel corso del Novecento, Aquileia tornò sotto i riflettori della storia. Dopo secoli di oblio e riusi delle sue pietre antiche, fu proprio in questo secolo che prese forma una nuova consapevolezza del suo valore. Gli scavi sistematici iniziarono a svelare il tessuto profondo della città antica: il foro, la basilica, le strade selciate, i mosaici straordinari. Le ricerche archeologiche si intensificarono negli anni Trenta e, dopo una breve interruzione durante la guerra, ripresero con rinnovata energia nel secondo dopoguerra. Ogni frammento riportato alla luce non era solo testimonianza dell’antico splendore romano, ma diveniva chiave di lettura per comprendere un’identità territoriale sopravvissuta alle fratture del tempo.
Gli anni tra le due guerre videro Aquileia diventare oggetto di campagne di valorizzazione legate all’ideologia nazionale. Ma fu soprattutto nel secondo dopoguerra che la comunità scientifica, guidata dall’allora Soprintendenza alle Antichità del Friuli-Venezia Giulia, diede inizio a uno studio approfondito e rispettoso del sito. Così Aquileia si avviava a diventare non solo luogo di scavo, ma simbolo di una rinascita culturale, fino al pieno riconoscimento internazionale: nel 1998 l’UNESCO l'ha dichiarata Patrimonio dell’Umanità, proprio per la sua eccezionale testimonianza della civiltà romana e della prima cristianità.
Le pietre raccontano: il legame con Aurisina
La ricchezza di Aquileia si manifesta soprattutto nella sua materia prima: la pietra. Pietra lavorata, scolpita, incisa, destinata ad adornare edifici pubblici, necropoli, basiliche. Una parte importante di questa materia arriva da non lontano: dalla cava di Aurisina, sul Carso triestino. Qui, da secoli, si estrae un calcare compatto, chiaro, perfetto per la lavorazione scultorea. Durante il periodo romano, la pietra di Aurisina fu impiegata in tutta l’area nord-adriatica, ma è ad Aquileia che raggiunge forse l’apice della sua diffusione. I sarcofagi monumentali, le epigrafi, le statue frammentarie conservate al Museo Archeologico Nazionale portano tracce inequivocabili di questo legame litico tra costa e pianura, tra cava e metropoli.
Nel Novecento, questo legame viene studiato a fondo dagli archeologi, che individuano precise corrispondenze tra le cave aurisine e i manufatti aquileiesi. Si scopre così che, accanto all’uso locale, Aquileia era anche un punto di redistribuzione del marmo orientale e locale. I blocchi lavorati o grezzi giungevano via mare, risalendo la laguna e l’antico porto fluviale, poi venivano scolpiti, rifiniti e reindirizzati verso il cuore dell’Impero. La città stessa si struttura come un grande laboratorio lapideo, dove la pietra di Aurisina si confronta con il marmo proconnesio, con quello pentelico, con i materiali egizi o asiatici. Una globalizzazione della materia e dell’estetica ante litteram.
Aquileia e l’Oriente: scambi d’acqua, scambi d’anime
Aquileia era l’ultima grande città a nord dell’Adriatico e la prima porta aperta sull’Impero. La sua posizione privilegiata l’ha resa un crocevia unico. Le merci e le persone giungevano non solo da Roma, ma anche da Alessandria, Antiochia, Tiro. Il porto di Aquileia era attivo, vivo, affollato. Qui si parlavano lingue diverse, si pregavano divinità orientali, si veneravano culti sincretici. Nel Novecento, gli studi archeologici rivelano la presenza di quartieri “orientali”, con resti di templi dedicati a Mitra, Iside, Cibele. La spiritualità e il commercio si intrecciavano lungo le banchine del porto fluviale.
L’acqua, elemento vitale, permetteva non solo il trasporto delle merci, ma anche il movimento delle idee. I marmi orientali, spesso decorati con motivi sincretici, venivano accostati a quelli locali, creando forme ibride, frutto di una città aperta, accogliente e culturalmente complessa. Alcuni sarcofagi aquileiesi, con motivi mitraici o scene di banchetto orientaleggiante, riflettono l’osmosi artistica e spirituale tra Est e Ovest.
Aquileia nel ‘900: la memoria tra due guerre
Nel primo conflitto mondiale, Aquileia si ritrovò sul confine del fronte. A pochi chilometri dalle trincee dell’Isonzo, vide transitare truppe, feriti, rifugiati. Non fu mai bombardata pesantemente, ma subì il trauma collettivo del passaggio della guerra. La località di Cascina Farello, a sud della città, ospitò reparti di aviazione francesi e italiani tra il 1915 e il 1919. Fu uno dei tanti teatri "minori" della Grande Guerra, ma oggi rappresenta una memoria viva della partecipazione del territorio agli eventi bellici.
Dopo la guerra, Aquileia venne annessa al Regno d’Italia e collegata amministrativamente alla provincia di Gorizia, prima di passare a Udine nel 1923. Il dopoguerra portò anche un risveglio identitario. I resti archeologici vennero studiati con maggiore sistematicità, mentre l’antica basilica patriarcale tornava a essere fulcro spirituale e artistico della comunità.
Negli anni Trenta, il regime fascista sfruttò simbolicamente la romanità di Aquileia. Si moltiplicarono le pubblicazioni, le campagne di scavo, le visite ufficiali. Ma fu dopo il secondo conflitto mondiale, in un’Italia finalmente libera, che Aquileia trovò la sua vera dimensione di bene comune: luogo di memoria, cultura e dialogo tra civiltà.
La Basilica e l’UNESCO: un’eredità viva
Oggi, Aquileia è un sito UNESCO per la sua capacità unica di testimoniare il mondo romano e paleocristiano. La Basilica di Santa Maria Assunta, con i suoi straordinari mosaici pavimentali, è un palinsesto di fede, arte e potere. Ma l'intero impianto urbano, il foro, il porto fluviale, le necropoli e i resti delle domus raccontano una città viva, stratificata, che il Novecento ha saputo riscoprire e restituire al mondo.
E proprio il Novecento è stato il secolo in cui Aquileia ha smesso di essere solo rovina, per diventare narrazione, identità, coscienza collettiva. Un secolo che ha visto la pietra tornare voce, l’acqua tornare via di comunicazione culturale.
Vie d’acqua, vie di pietra
La storia di Aquileia, vista attraverso il filtro del Novecento, è una storia di rinascita e di memoria. L’acqua che un tempo portava i marmi orientali, oggi porta visitatori, studiosi, pellegrini. La pietra che fu scolpita ad Aurisina e posata ad Aquileia è divenuta simbolo di una continuità che lega il presente a un passato millenario.
Nel progetto “Sulle vie dell’acqua”, Aquileia è tappa imprescindibile. Perché è lungo queste vie che si sono mossi non solo uomini e merci, ma idee, sogni, fedi. Ed è nella pietra e nell’acqua, elementi eterni, che si riflette il senso profondo del Novecento aquileiese: un secolo che ha saputo ascoltare le voci del passato e trasformarle in futuro.
lunedì 26 maggio 2025
Lignano dalle acque della laguna alla Florida d'Italia
Capitolo: Lignano Sabbiadoro – Dalle acque della laguna alla Florida d’Italia
Lignano Sabbiadoro, oggi conosciuta come una delle più rinomate località balneari dell’Alto Adriatico, ha attraversato nel Novecento un’evoluzione straordinaria che la trasformò da luogo quasi inaccessibile e paludoso a perla turistica di rilevanza nazionale e internazionale. Questo cambiamento, alimentato dalle vie d’acqua, dal lavoro dell’uomo e da visioni architettoniche lungimiranti, si intreccia profondamente con la memoria storica, il paesaggio naturale e i movimenti culturali del secolo scorso.
Lignano era abitata fin dall’epoca romana, quando la sua posizione strategica nella laguna friulana ne fece sede di un piccolo presidio militare. Successivamente, nel Medioevo, continuò a essere un avamposto marginale, abitato da pochissimi residenti stabili. Per secoli, infatti, la penisola fu isolata dal resto dell'entroterra, raggiungibile soltanto a piedi o attraverso zattere, in un viaggio che implicava l’attraversamento dell’intera laguna. La Via Crescenzia, antica arteria romana, collegava queste terre remote al continente, proseguendo idealmente nell’attuale viale Centrale. Tuttavia, tale via rimase un sentiero informale per secoli, segno dell’isolamento e della scarsa urbanizzazione dell’area.
Fu solo con il Novecento che Lignano conobbe la propria rinascita. I primi tentativi di sviluppo turistico risalgono agli inizi del secolo, quando, nel 1903, venne costruito un primo, semplice impianto balneare per iniziativa di un gruppo di imprenditori veneti. Seguirono le prime strutture ricettive come l’albergo voluto da Angelo Marin e i fratelli Piani. Tuttavia, l’ambiente ostile – caratterizzato da paludi infestate dalla malaria – impediva un vero slancio alla crescita. Il riscatto arrivò negli anni Venti, quando iniziarono le opere di bonifica e di sistemazione territoriale. Solo dopo l’apertura, nel 1926, della strada comunale che collegava Lignano a Latisana, fu possibile iniziare a immaginare un futuro diverso per la penisola.
Nel 1935 fu istituita l’Azienda di Soggiorno e Turismo: è in questo momento che venne aggiunto, per finalità promozionali, il nome “Sabbiadoro”, evocando la bellezza della spiaggia dorata e potenziando l’appeal di Lignano come destinazione turistica. Nel 1938, la località poteva vantare circa mille posti letto e oltre sessantamila presenze turistiche annue, numeri che confermavano il potenziale di una stazione balneare tra le più antiche d’Italia.
Il secondo conflitto mondiale rallentò questa ascesa, ma a partire dagli anni Cinquanta Lignano riprese il suo slancio. In questo periodo avvenne una delle trasformazioni più affascinanti della sua storia urbanistica. L’architetto Marcello D’Olivo, figura visionaria e innovativa, elaborò un piano regolatore completamente originale per lo sviluppo di Lignano Pineta. Il suo progetto era ispirato a forme naturali e prevedeva una viabilità concentrica che disegnava una chiocciola – simbolo poi adottato come emblema della località – e che rompeva radicalmente con la griglia urbanistica tradizionale. Questa visione organica, in sintonia con il paesaggio di pinete e dune sabbiose, rappresentava un raro esempio di architettura moderna perfettamente integrata nel contesto ambientale.
Nel frattempo, anche il volto culturale di Lignano cominciava a definirsi. La cittadina accolse negli ultimi anni della sua vita lo scrittore Giorgio Scerbanenco, il quale vi ambientò alcuni suoi romanzi, contribuendo alla narrazione letteraria della località. Ma fu un altro gigante della letteratura mondiale, Ernest Hemingway, a consacrare Lignano come luogo dello spirito, oltre che del turismo.
Il 15 aprile 1954, accompagnato dalla moglie Mary Welsh e dalla famiglia nobiliare friulana dei Kechler, Hemingway fece visita alla ancora semi-sconosciuta Lignano Pineta. A bordo di una Lancia Aurelia B21, lo scrittore attraversò le strade ancora in costruzione e, osservando la pianta urbanistica disegnata da D’Olivo, rimase affascinato dall’audacia del progetto. Proprio in quella circostanza, i Kechler gli offrirono un lotto edificabile, dono che Hemingway accettò simbolicamente firmando un documento ancora oggi conservato dalla Lignano Pineta Spa.
Passeggiando lungo la spiaggia circondata dalla pineta, lo scrittore americano pronunciò una frase destinata a entrare nella storia: “Ma questa è la Florida, anzi è la Florida d’Italia!”. Il paragone con le Everglades, dove la vegetazione incontra le acque, rappresentava un potente elogio per il paesaggio lignanese, allora ancora incontaminato e selvaggio. Le foto d’epoca ritraggono Hemingway mentre si toglie la sabbia dalle scarpe, immerso in uno scenario essenziale, ma carico di potenzialità immaginative.
A memoria di quella visita leggendaria, nel 1986 nacque il Premio Hemingway, istituito dal Comune di Lignano Sabbiadoro. Il premio si articola in quattro categorie – Letteratura, Fotografia, Testimone del nostro tempo e Avventura del pensiero – e rappresenta oggi uno degli appuntamenti culturali più significativi dell’intera regione, contribuendo a rafforzare il legame tra la cittadina e il mondo intellettuale. Al Premio si affianca il Parco Hemingway, un’area verde al centro di Sabbiadoro, luogo di memoria e di incontro, teatro di eventi e manifestazioni, tra cui la colorata Festa dei Fiori che apre simbolicamente ogni stagione estiva.
Nel 1959 Lignano ottenne l’autonomia amministrativa da Latisana e si costituì come comune indipendente. A fine decennio, la popolazione era raddoppiata rispetto all’inizio degli anni Cinquanta, segno dell’effetto trainante del turismo e della crescente attrattività del territorio. L’espansione urbana proseguì con attenzione all’ambiente e al verde: la foresta di pini, che un tempo dominava la penisola, fu in parte conservata, integrandosi con i nuovi insediamenti residenziali e alberghieri.
Nel tempo, Lignano ha conquistato anche riconoscimenti ufficiali: è Bandiera Blu da ben 35 anni (dal 1989 al 2024), insieme a Grado e Moneglia, a testimonianza di una lunga e costante attenzione alla qualità delle acque, alla gestione ambientale e ai servizi offerti ai visitatori. La località, collegata all’entroterra dalla strada regionale 354, è oggi esempio di come turismo, cultura, memoria storica e sostenibilità possano convivere in armonia.
Lignano Sabbiadoro, nel Novecento, è quindi divenuta un laboratorio di trasformazione: dalle paludi insalubri alle spiagge dorate, dalle zattere alle moderne arterie viarie, dal silenzio delle pinete alla voce degli scrittori. Un luogo d’acqua e di sabbia, di pietre e parole, che ha saputo costruire la propria identità lungo le vie invisibili della memoria e del mare.
venerdì 23 maggio 2025
Il fascino della Grotta delle Torri di Slivia - Pejca v Lascu
Capitolo: Grotta delle Torri di Slivia – Pejca v Lascu
Vivi il fascino della natura, nel cuore segreto del Carso
Cosa vedere a Trieste I Grotta Torri di Slivia
Nel cuore del Carso triestino, dove il paesaggio calcareo cela meraviglie sotto ogni piega del terreno, si apre uno dei gioielli sotterranei più affascinanti d’Italia: la Grotta delle Torri di Slivia, o Pejca v Lascu, come la chiamano gli abitanti del luogo. Un luogo senza tempo, dove le ere geologiche si sono cristallizzate in maestose torri di pietra, stalattiti scolpite dalla pazienza dell’acqua e stalagmiti cresciute dal lento respiro della terra.
Questa grotta non è solo una cavità naturale, ma una testimonianza viva del Carso, di una terra complessa e stratificata, modellata dal carsismo e dalla storia umana. Situata nel comune di Duino-Aurisina, ai piedi dell’antico borgo carsico di Slivia, la grotta è raggiungibile in modo del tutto particolare: a bordo di un trattore. Un’esperienza che ha già il sapore della scoperta, preludio ad un viaggio nel sottosuolo che ha affascinato esploratori, speleologi e visitatori fin dal XIX secolo.
Le origini e la scoperta: un patrimonio speleologico
La prima esplorazione ufficiale della grotta risale al 6 gennaio 1885, quando gli speleologi della Società degli Alpinisti Triestini, guidati dall’ingegner Costantino Doria, penetrarono per la prima volta nella cavità attraverso il grande pozzo naturale conosciuto da tempi immemori. Fu allora che, dinnanzi alle gigantesche formazioni stalagmitiche, i pionieri rimasero estasiati, scegliendo di chiamarla "Grotta delle Torri".
Inserita nel catasto speleologico regionale con il numero 22, è una delle prime cavità documentate del Carso, territorio che oggi conta oltre 3.000 grotte censite. Questo dato conferma la sua importanza scientifica e storica, rendendola uno dei punti di riferimento per lo studio del carsismo triestino.
L’apertura al pubblico: tra turismo e tutela ambientale
I lavori per rendere fruibile la grotta ai visitatori iniziarono nel 1964, quando venne progettato un ingresso artificiale. Tre anni più tardi, nel 1967, vennero realizzati il sentiero interno e una scalinata in ferro che consentirono l’accesso fino al cuore della cavità. Finalmente, nel 1968, vennero emessi i primi biglietti turistici.
La Grotta delle Torri di Slivia rappresenta anche un esempio unico in Italia: è infatti gestita direttamente da un’azienda agricola, “Le Torri di Slivia”, che sorge proprio sopra la cavità. Il connubio tra agriturismo e valorizzazione del patrimonio naturale ha dato vita ad una realtà sostenibile, che integra ospitalità rurale e turismo ambientale.
Il viaggio nella grotta: un percorso emozionante
La discesa comincia con la salita sul trattore, che conduce i visitatori fino all’ingresso celato in una radura. Qui, una guida apre una porta metallica, quasi fosse il varco per un altro mondo. Una lunga scalinata interna, avvolta da una luce soffusa e rispettosa, accompagna i visitatori verso l’abisso.
Il grande pozzo di accesso si apre a 114 metri sul livello del mare e sprofonda per 33 metri in un cono detritico. Da lì, si penetra fino alla sala principale, dove le stalagmiti monumentali, alte fino a diversi metri, sembrano sfidare la gravità. Il percorso turistico si sviluppa per 554 metri lineari, raggiungendo una profondità di circa 70 metri, mentre la profondità complessiva della grotta arriva a 101 metri, fino a sfiorare le acque di base del Carso.
Le meraviglie naturalistiche: un capolavoro sotterraneo
Ogni angolo della grotta è un mosaico di forme geologiche straordinarie: gours, cortine, tubolari, lampadari di pietra, fino al gruppo delle “Torri”, che danno il nome alla cavità. Il lento stillicidio dell’acqua ha creato uno scenario fiabesco, dove ogni colonna e ogni concrezione raccontano storie di millenni.
La presenza di pipistrelli, sentinelle discrete della notte carsica, aggiunge un tocco di vita a questo ambiente altrimenti silenzioso. In certi momenti, rimanendo immobili, si può percepire il battito d’ali leggero di queste creature notturne, che sorvolano i visitatori come antichi guardiani del buio.
Un simbolo culturale e paesaggistico del Carso
La Grotta delle Torri di Slivia è molto più di un’attrazione turistica. È una testimonianza della relazione profonda tra l’uomo e il paesaggio carsico, tra il rispetto per la natura e il desiderio di conoscerla. Le sue immagini sono state pubblicate su testi fondamentali della speleologia italiana, come "Duemila grotte" di Luigi Vittorio Bertarelli e Eugenio Boegan, segno della sua rilevanza culturale.
Il percorso di valorizzazione ha saputo conciliare tutela ambientale, narrazione storica e fruizione sostenibile. Le visite, disponibili da marzo a novembre, sono sempre guidate, proprio per mantenere intatta l’atmosfera delicata della cavità e per trasmettere al pubblico non solo informazioni, ma anche emozione e consapevolezza.
Un’esperienza da vivere e custodire
Visitare la Grotta delle Torri di Slivia significa discendere nel tempo e nel ventre della terra. È un cammino sensoriale e culturale, dove si comprende quanto il Carso sia un luogo unico, modellato dall’acqua e dalla pietra, ma anche dalle storie e dalla cura delle comunità locali.
Tra le pieghe della roccia, tra le ombre delle torri e le luci soffuse, si svela un mondo segreto e affascinante, un patrimonio da scoprire, rispettare e tramandare. In questa grotta, la pietra non è solo materia, ma memoria: memoria del tempo, della natura e delle genti del Carso.
Igo Gruden il poeta del carso
Il capitolo: Igo Gruden – Il poeta del Carso, delle pietre e degli
uomini
SULLE VIE DELL'ACQUA: I VIDEO DEI WORKSHOP FOTOGRAFICI
SULLE VIE DELL'ACQUA: TRENTA STORIE DEL '900 SUL VIE DELL'ACQUA
Tra le
fenditure calcaree del Carso, a picco sul mare che riflette le luci di Trieste,
nacque nel 1893, ad Aurisina (Nabrežina), uno dei più significativi
poeti sloveni del XX secolo: Igo Gruden. In questo borgo pietroso, dove
le cave scolpivano la montagna e il vento narrava storie antiche, si formò
l'anima poetica di un uomo che, attraverso versi limpidi e dolorosi, seppe
cantare la bellezza e la sofferenza della sua terra.
Primogenito di
dieci figli, visse la sua infanzia in un ambiente interamente sloveno, in un
periodo in cui la vitalità economica di Aurisina — legata all’estrazione della
pietra e alla nuova ferrovia Trieste-Vienna — trasformava profondamente il
territorio. Gruden, dopo il liceo tedesco a Gorizia e gli studi in legge a
Vienna, Graz e Praga, fu arruolato durante la Prima guerra mondiale e
gravemente ferito sul fronte dell’Isonzo. L’esperienza della guerra lo segnò in
modo indelebile e diventò uno dei nuclei tematici centrali della sua poesia.
La pietra, il lavoro, la dignità
Il paesaggio
del Carso e la vita dei suoi abitanti sono i protagonisti di molte liriche
giovanili. In particolare, i cavatori di Aurisina, figure archetipiche
della fatica e dell’identità, ricevettero dal poeta un omaggio sentito e
profondo.
Ai cavatori di
Aurisina
In questi
versi, Gruden non si limita a descrivere la durezza del lavoro nella pietra:
egli ne eleva il significato a simbolo di radicamento, di resistenza culturale
e di progresso umano. I cavatori sono eroi silenziosi, portatori di una forza
che è allo stesso tempo fisica, etica e spirituale. La pietra non è solo
materia, ma memoria e destino.
Il poeta tra
le guerre
Nel 1920
Gruden pubblica le raccolte Narcis e Primorske pesmi
(Poesie del Litorale), dove l’amore per il paesaggio e le genti
costiere si fonde con la sofferenza del dopoguerra. I contadini, i pescatori, i
bambini, gli anziani popolano le sue poesie, osservati con empatia e attenzione
sociale. Con l’avvento del fascismo e le politiche di snazionalizzazione,
Gruden esprime la nostalgia per una patria perduta e la solidarietà verso gli
oppressi.
Nel 1939
pubblica Dvanajsta ura (La dodicesima ora), un’opera in cui
l’inquietudine dell’imminente conflitto si fa palpabile. Il poeta si interroga
sulla responsabilità dell’individuo e sul destino dell’umanità. Le immagini si
fanno più cupe, il tono più solenne.
L’internamento e la speranza
Durante la
Seconda guerra mondiale, Gruden fu arrestato e deportato nei campi di
concentramento fascisti. Subì la detenzione anche nel famigerato campo
sull’isola di Arbe. Ma, ancora una volta, il poeta non si lasciò travolgere
dall’odio. Nel diario poetico V izgnanstvu (In esilio) esprime un
senso di umanità e solidarietà anche verso i nemici.
Cella numero
cinque
Questa pietà
laica, che si nutre di coraggio e lucidità, è forse l’aspetto più originale
della poetica di Gruden. Egli non si rifugia nell’estetismo né nella
propaganda, ma affronta il dolore con compassione e integrità morale.
Il cuore del poeta
Nel 1946,
l’anno prima della sua morte, Gruden pubblica Pesnikovo srce (Il cuore
del poeta), una raccolta che fonde l’amore, la memoria e la riflessione
esistenziale. Qui, il poeta canta con voce più intima, consapevole del proprio
tramonto ma ancora pieno di speranza.
Il cuore del
poeta
Gruden muore a
Lubiana nel 1948, ed è sepolto nel cimitero di Žale. L’anno successivo esce
postuma la raccolta per bambini Na Krasu (Sul Carso), ultimo
gesto d’amore verso la sua terra e le future generazioni.
#02 Storie Di Pietre 2021: "Ode alle Pietre e ai Pescatori"
Eredità viva:
la pietra che parla
Oggi, la
poesia di Gruden vive ancora tra le rocce e le genti del Carso. I suoi versi
dedicati ai cavatori sono stati riscoperti e celebrati in numerosi eventi
culturali. A Portopiccolo, nel Parco Sculture, scultori contemporanei
hanno inciso nella pietra parole tratte dalla poesia Ai cavatori di Aurisina.
In altre occasioni, le sue liriche sono state recitate tra le cave ancora
attive, tra le polveri bianche e l’eco del martello.
Questo
continuo dialogo tra parola, pietra e comunità è il segno che la poesia di
Gruden non è un reperto del passato, ma una voce presente, che parla di
identità, lavoro, memoria e speranza.
L'ISONZO, il fiume smeraldo
Capitolo: L'Isonzo – Il fiume di smeraldo
L'Isonzo, il fiume dal nome celtico “Eson”, è molto più che un corso d'acqua: è un filo verde smeraldo che cuce insieme paesaggi, storie e identità di due nazioni e di molte comunità. Con i suoi 136 chilometri di lunghezza, di cui ben 85 in territorio italiano, attraversa territori ricchi di storia e natura, legando tra loro le Alpi Giulie, il Carso e infine il Mare Adriatico. Il suo bacino, che si estende su 3.400 km², racconta di biodiversità, geologia carsica, memoria e rinascita.
Il viaggio dell’Isonzo
L’Isonzo nasce in Slovenia, nel cuore della Val Trenta, un angolo idilliaco delle Alpi Giulie dove le acque sgorgano pure e fredde da una sorgente situata a circa 876 metri di altitudine. Fin dai primi passi il fiume si insinua in un paesaggio di gole, foreste e cascate. Il suo corso iniziale è impetuoso, incastonato tra rocce dolomitiche e boschi popolati da camosci, cervi e aquile reali.
Attraversa le città slovene di Bovec (Plezzo), Kobarid (Caporetto) e Tolmin, note per la loro bellezza paesaggistica, ma anche per essere state teatri di battaglie cruente durante la Prima Guerra Mondiale. In queste vallate e forre si combatterono le prime delle dodici Battaglie dell’Isonzo (1915–1917), tragico emblema del fronte italo-austriaco. Il fiume, che taglia in due le linee di contatto tra i due eserciti, divenne un nemico in sé: difficile da attraversare, mutevole, ostile.
Il paesaggio è ancora oggi segnato da questa memoria. Trincee, postazioni in caverna, resti di fortificazioni e sacrari punteggiano il territorio, facendo dell'Isonzo non solo un elemento naturale ma anche un monumento liquido alla memoria europea del Novecento.
Un fiume smeraldo
Colpisce immediatamente chi lo osserva il colore inconfondibile delle sue acque: uno smeraldo vivo, quasi innaturale. Questo effetto ottico deriva da particolari rifrazioni della luce dovute alla presenza di micro-particelle di origine minerale e alla purezza delle sorgenti carsiche. L’Isonzo non è solo bello da vedere: è una risorsa idrica fondamentale e un ecosistema di valore internazionale.
Un ecosistema prezioso
Lungo il suo corso si alternano habitat unici: dalle rapide alpine, alle lanche golenali, fino ai delta lagunari. Il tratto finale, in particolare, custodisce uno degli scrigni naturalistici più importanti del Friuli Venezia Giulia: la Riserva Naturale della Foce dell’Isonzo.
Istituita nel 1996, la Riserva include l’Isola della Cona, un’area umida che si è affermata come modello di gestione ambientale e conservazione. Più di 300 specie di uccelli fanno tappa o nidificano in questo ambiente: tra di esse cavalieri d’Italia, aironi rossi, falchi di palude e sterne. La zona ospita anche i cavalli Camargue, introdotti per mantenere l’equilibrio ecologico del territorio: animali robusti e docili, che vivono allo stato semibrado in piena armonia con il paesaggio lagunare.
Il Carso e la guerra
Salendo il corso del fiume, si entra nel territorio carsico, un ambiente aspro, segnato da altopiani rocciosi, doline e grotte. Qui la guerra trovò un teatro ideale per la sua tragicità. Le battaglie dell’Isonzo si svolsero in buona parte proprio sul Carso, dove l’aridità della roccia, la mancanza d’acqua e la difficoltà dei rifornimenti resero il conflitto ancora più drammatico. Le trincee scavate nel calcare, i crateri delle esplosioni e le linee di fortificazione austro-ungariche sono oggi percorsi di memoria visitabili attraverso itinerari escursionistici tematici.
Località come Sagrado, Fogliano Redipuglia – dove si erge l’imponente sacrario militare – o Gradisca d’Isonzo, conservano il ricordo di quegli anni attraverso musei, cippi e sentieri storici.
Kilimangiaro - Lungo il fiume Isonzo del 19/02/2017 - Video - RaiPlay
Turismo naturalistico e percorsi della memoria
Oggi, l’Isonzo è anche una meta per il turismo sostenibile, che integra natura e cultura. Escursioni a piedi, in bicicletta o a cavallo permettono di esplorare sia gli aspetti ambientali che quelli storici del fiume. Le sponde del fiume, da Gorizia alla foce, offrono una straordinaria varietà di paesaggi: dai parchi cittadini, come il Parco Piuma e il Parco di Campagnuzza, alle riserve naturali, passando per i vigneti DOC e le zone umide.
La parte terminale del fiume è ideale anche per il kayak e le escursioni fluviali, in un ambiente sospeso tra terra e acqua, dove si respira ancora oggi un silenzio solenne, rotto solo dal canto degli uccelli e dal lento fluire dell’acqua.
Isonzo - Soča - alla scoperta della valle del fiume di smeraldo
Vino, cultura e natura
Infine, lungo l’Isonzo si sviluppano alcune delle più pregiate zone vitivinicole della regione, come l’Isontino e il Collio. Qui si producono vini celebri, espressione di un paesaggio coltivato con sapienza e rispetto. Il legame tra terra, acqua e tradizione si riflette nel carattere deciso dei bianchi friulani e nella profondità dei rossi.
L’Isonzo è un fiume dalle molte vite: corso d’acqua dalle origini alpine, confine di civiltà, campo di battaglia e oggi custode di biodiversità. Le sue acque verde smeraldo scorrono tra le pagine della storia e i sentieri della natura, ricordandoci come la bellezza possa nascere anche dove un tempo c’erano dolore e distruzione. Lungo le sue rive, il ricordo si fonde con il canto degli uccelli, e la memoria diventa paesaggio.
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