giovedì 15 maggio 2025

BIAGIO MARIN, LA POESIA E IL MARE

Il capitolo dedicato a Biagio Marin. Il mare dentro: poesia e laguna, un’anima in dialetto

SULLE VIE DELL'ACQUA: I video del Progetto "Sulle Vie dell'Acqua, tra pietre e fiumi, storie del '900"

BIAGIO MARIN 


immagine realizzata con intelligenza artificiale


Grado, 29 giugno 1891. In un’isola di sabbia e vento, tra barene, canneti e riflessi cangianti, nasce Biagio Marin, poeta della luce e del mare. Lontano dai grandi centri culturali, eppure profondamente immerso nella storia europea del Novecento, Marin è figura di frontiera: letteraria, linguistica, geografica. Uomo dell’Adriatico settentrionale, delle sue acque salmastre e dei silenzi densi della laguna, visse la sua lunga esistenza a contatto con un paesaggio liquido, al tempo stesso fisico e interiore. Le sue parole, scolpite in un veneto gradese personale e musicale, rievocano la voce dell’acqua, i sospiri del vento tra le barche, le attese immobili sulle rive fangose.

Dalle rive dell’Impero alla “Voce” di Prezzolini

Marin nacque in un territorio allora compreso nell’Impero austro-ungarico, figlio di un oste e orfano di madre fin da piccolo. Crebbe con la nonna paterna, assorbendo le voci della tradizione orale e le inflessioni del dialetto locale, che sarebbero diventate la materia viva della sua poesia. A Gorizia studiò in lingua tedesca, come previsto dai programmi scolastici imperiali, imparando a conoscere dall'interno il mondo mitteleuropeo. La sua educazione, tuttavia, non fu mai confinata nei confini di un’identità unica: visse sempre immerso in un orizzonte plurale, fatto di lingue, religioni e culture diverse. Pisino, Firenze, Vienna: Marin si spostò, giovane, tra scuole e università, tra gli ideali irredentisti e la filosofia classica.

Nel 1911, nella Firenze de La Voce, Marin si confrontò con figure come Slataper, Saba, Giotti e Amendola. Fu un’immersione totale nel dibattito culturale e politico italiano. Firenze gli offrì anche la scoperta dell’arte rinascimentale, una bellezza che colpì la sua anima profondamente e influenzò la sua sensibilità estetica. Ma fu a Vienna, tra i caffè e le sale da concerto, che Marin pubblicò la sua prima raccolta poetica Fiuri de tapo (1912), in dialetto gradese: un atto d’amore per la sua terra, scritto nella lingua della madre perduta e del mare che l’aveva cresciuto.

La guerra, il dolore e il ritorno

Quando scoppiò la Prima guerra mondiale, Marin, suddito austriaco, compì una scelta netta: si arruolò volontario nell’esercito italiano. La guerra lo colpì nella carne e nello spirito: ammalato di tubercolosi, trascorse lunghi mesi in sanatorio. Dopo la fine del conflitto, si laureò in filosofia a Roma e tornò in Friuli per insegnare. Tuttavia, il suo spirito indipendente si scontrò con le gerarchie ecclesiastiche locali, e Marin lasciò la scuola per dirigere l’Azienda di soggiorno di Grado, incarico che mantenne per 14 anni.

Grado tornava così a essere il suo centro: non solo luogo fisico, ma sorgente poetica inesauribile. Nella sua laguna, Marin tornava a respirare, a vivere con la misura dei giorni dettati dal mare. Durante il fascismo ebbe incarichi ufficiali, ma nel secondo dopoguerra prese parte attiva al Comitato di Liberazione di Trieste. Il lutto profondo per la morte del figlio Falco, caduto in guerra in Slovenia, lo segnò per sempre. Ma anche questa ferita entrò nella sua poesia, nella sua concezione unitaria della vita, dove dolore e bellezza non si escludono, ma convivono.


Il dialetto, l’acqua, Dio: la poetica del mondo semplice

Marin scriveva come viveva: con sobrietà, verità, immersione totale. La sua lingua poetica non fu l’italiano, ma il veneto gradese, una lingua povera e sublime, arcaica e innovativa. Una lingua «che si trova dentro», diceva. Le sue poesie non nascono da un progetto razionale, ma da un ascolto profondo, quasi mistico, del mondo.

Nelle sue raccolte principali — da Le litànie de la Madona (1949) a I canti de l’isola (1970) fino a La vose de la sera (1985) — Marin canta la laguna, i pescatori, il mutare del cielo e del mare, la vita che si rinnova tra sabbie e riflessi. Il mare non è solo paesaggio, ma origine, Dio, compagno, mistero. Come scrisse lui stesso:

«Il mare è stato per me la più pura parola dell’Alterità e la più immediata incarnazione della Divinità [...] Conoscevo i suoi capricci, le sue bellezze. Alla sua vita partecipavo».

Quella partecipazione è la cifra della sua poetica: la poesia è un atto d’amore verso la realtà. Anche la morte, anche il dolore più cupo — come quello per il suicidio del nipote Guido e la morte della moglie Pina — si sciolgono in canto. Come ricordava Pasolini, grande estimatore e amico di Marin:

«Non ha paura né dell’amore, né della morte. Ogni volta è come la prima volta».

Poesia e unità: la spiritualità laica di un poeta del mare

La visione del mondo di Marin è fondata sull’unità. Vede il divino nella natura, il sacro nel quotidiano, la poesia in ogni cosa. Nella sua spiritualità laica, ma profondamente religiosa, il mare diventa la grande metafora del Tutto. Come scrive Claudio Magris, Marin ha una “inebriata e inquietante sensualità” che gli permette di vedere la bellezza anche nel disfacimento, nella sabbia, nei gabbiani morti. Nulla è scarto, nulla è escluso dalla totalità della vita.

La poesia di Marin è così un canto panico, una preghiera terrena. Non ha ambizioni intellettuali o avanguardistiche. Rifiuta il virtuosismo e le mode letterarie. Eppure, proprio per questo, riesce ad andare al cuore delle cose, ad avvicinare l’assoluto. Come scrisse in Il non tempo del mare (1964), che gli valse il Premio Bagutta:

«Me par d’esser in mi la poesia / come el mar che l’è in si el so fundo / co la barca che scampa ogni onda / e el vento che la fa dondolà».

Una voce che resta: dalla laguna al mondo

Negli anni '60 e '70, Marin ricevette il riconoscimento della critica nazionale. Pier Paolo Pasolini, Carlo Bo, Claudio Magris, Gianfranco Contini: tutti ne lodarono la forza poetica. Le sue raccolte vennero pubblicate da Scheiwiller, da Mondadori, da Guanda. La poesia dialettale, da espressione locale, diventava con Marin forma universale.

Dal 1968 tornò stabilmente a Grado. Quella piccola isola — un tempo marginale, oggi preziosa — divenne il centro del suo mondo. Camminava ogni giorno tra le calli, parlava con i pescatori, guardava il mare da una panchina. Fino all’ultimo, nonostante la sordità e la cecità quasi totale, scrisse. Le sue ultime poesie, come quelle contenute in Nel silenzio più teso (1980) e La vose de la sera (1985), sono canti sommessi, ma luminosi. Non c’è disperazione, ma solo quieta accettazione.

Morì il 24 dicembre 1985. Un giorno di vigilia, nel suo mare, nella sua luce.

Le vie dell’acqua: una vita immersa nel mare

Biagio Marin è il poeta dell’acqua, della sabbia, del vento e della luce. La sua vita scorre sulle vie dell’Adriatico, tra le pietre di Grado e i fiumi che sfociano nella laguna. La sua poesia è un fiume che scava la roccia, che accarezza la terra, che scende verso il mare. Con parole semplici ha toccato l’infinito. Con il dialetto ha cantato l’universale. Con l’umiltà ha rivelato Dio.

In lui si realizza la grande lezione che questa serie intende raccontare: l’acqua, i paesaggi e le storie del ‘900 non sono solo sfondo della vita, ma sua sostanza. Biagio Marin ce lo insegna: siamo parte del mondo come il mare fa parte della laguna. E in quella voce d’acqua che scorre e risuona, possiamo ancora riconoscere la poesia che ci abita.

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